Ogni lacrima al tramonto era la speranza di vivere un altro giorno.
Fragili corpi e grandi anime perse, occupavano uno spazio materiale in recinti definiti. Il logorio dei tessuti indossati e vissuti, diventava un tutt’uno con il corpo. La fame, i morsi della fame, erano dolore. Ogni passo, o piccolo movimento in quel gelo, era uno sforzo immane per la poca energia che rimaneva ancora in quei corpi.
Senza voce, senza parola, senza dignità.
Presi, ammassati, deportati, sfruttati, derubati, denudati: di tutto. La morte della volontà di vivere, di combattere, di respirare.
Ogni bambino senza sorriso era l’inferno materializzato sulla terra. Quella stella colorata cucita a mano era la sconfitta mondiale della democrazia.
Uomini armati che fanno la guardia ad un gregge di corpi. Le grida, le torture, erano un fiume che aveva origine nel campo di concentramento e che bagnava ogni sassolino di quel recinto di morte.
Le forme sinuose dei corpi femminili adesso erano ossa e pelle, scheletri semoventi.
Ogni grido fatto senza tortura rappresentava una violazione da punire, non c’era possibilità di protestare, perché l’antagonista era una pallottola che ti sfondava il cranio.
Non c’era nessun sentimento oltre la paura, la speranza era cosparsa da una marmellata di disperazione, formata da chi andava a fare la doccia, chi camminava fino al ciglio della fossa comune, e da quell’inconfondibile doppio segnale: lo sparo e il fumo nero che saliva in cielo.
Chi aveva ancora una luce di vita poteva permettersi di sognare il sorriso dei propri figli, chi invece li stava abbracciando moriva dentro incolpandosi del mondo orribile in cui li aveva concepiti.
Quando ho conosciuto “G” ero il direttore della RSA, avevo dentro l’incapacità di immaginare la sua vita. Non parlava, girava trascinandosi la bombola dell’ossigeno e accendeva una sigaretta con il mozzicone dell’altra. Il numero tatuato al braccio parlava per lui. Cercava in ogni modo di nasconderlo, avrebbe voluto strapparlo. Il mio compito oltre ad occuparmi del benessere degli ospiti e delle cure mediche era capire cosa avrebbe potuto dargli un briciolo di felicità. Accompagnarlo in quell’ultimo viaggio.
Era amato dai figli, che venivano regolarmente a trovarlo, ma nessuno sapeva cosa avessero visto quegli occhi. Alto un metro e novanta, magrissimo, occhi chiari e furbi, le mani erano grandi e avevano imbracciato tante armi per proteggere il popolo italiano.
Aveva novantatré anni, era nato lo stesso anno e lo stesso mese di mio nonno. Catturato al fronte era finito ad Aushwitz, come prigioniero di guerra, per i lavori forzati. Era una mina vagante ma nel vero senso della parola, ossigeno e fuoco non vanno d’accordo. Così trovammo un compromesso, e riuscì a far sorridere il volto di un bambino di novantatré anni, al punto da iniziare a tossire, come se i polmoni volessero scappare da quel fumo.
Un giorno mi fece chiamare, aveva accettato la mia proposta, cominciammo a camminare nel giardino, e i suoi bisogni vennero scanditi nel modo più vero: «sono vecchio, sono stanco di vivere, ho visto già tutto, non ho più un corpo, ho un cancro all’ultimo stadio, voglio che il numero di giorni che mi restano siano il meno possibile».
Cosa potevi dire ad un militare che aveva combattuto due guerre? Che aveva vissuto il dolore di uccidere l’altro? Che non aveva più i polmoni per colpa delle granate austriache, e per la polmonite durata per quasi tutti i mesi di prigionia? Cosa potevi fare per aiutarlo? Di sicuro non potevi togliergli la sigaretta, perché per lui era la rivincita della vita, quella sigaretta che i nazisti fumavano denigrando i prigionieri, e che nel campo rappresentavano una moneta di scambio preziosissima. «Non potevamo fumare il tabacco, era un bene prezioso, allora si scavava un pezzetto di legno delle pareti delle baracche, lo modellavi e ci mettevi dentro la paglia sporca che raccoglievi ai bordi, dove la rete e il filo spinato delimitavano la nostra libertà».
Abbiamo passeggiato assieme a braccetto per un paio di mesi, e ogni stagione rappresentava un brutto ricordo. La neve fredda e ghiacciata da spalare, da togliere dai piedi scalzi. Il sole accecante che bruciava. Un viaggio nel tempo per osservare attraverso i suoi occhi un inferno vissuto. Non c’erano ricordi sani, era vuoto, erano volati via, – Non ha più importanza – diceva. Ogni giorno assieme era un supplizio, una continua voglia di spegnere la luce, la speranza che accendendo la prossima sigaretta qualcosa dentro ai polmoni si rompesse per sempre. Fumava per finire di vivere. Il ricordo di chi era stato sterminato lo uccideva, si sentiva in colpa per essere sopravvissuto ed essere tornato indietro. Era un naufrago della guerra. Aveva la “sindrome del sopravvissuto”, la stavo ancora studiando.
«Ero impotente, diviso dalle donne e dai bambini da un recinto di filo spinato, non potevo fare nulla, i miei compagni avevano provato a scappare o a scavalcare la rete e la mitraglia in alto li aveva crivellati di colpi.»
Voleva suicidarsi, ma non trovava il coraggio. Sia durante la prigionia sia a casa. Ricordava bene gli odori ed i suoni, le immagini, persone accatastate in mucchi, portate su una carriola inermi, per essere fatti ruzzolare nella fossa comune. Non c’era una foto, un filmato, non c’era un testimone che potesse ricordare, non c’era un carceriere che volesse ricordare. La memoria per “G” significava autodistruzione psicologica. Non c’era una cura, una via d’uscita per lui. Per noi “G” era la più grande vittoria contro la guerra, era la memoria vivente della deportazione, era un sopravvissuto, un testimone diretto del nazismo.
La sua partenza è stata come ascoltare le ultime note di una canzone al pianoforte, una specie di duetto fra le più giovani e acute, accompagnate dalla sicurezza delle gravi e più anziane.
Un viaggio durato pochi mesi ma ricco di scambi intellettuali indescrivibili.
Guardarlo sorridere ogni tanto, era come una candela che sta per spegnersi, con la fiamma traballante, che riprendeva ossigeno, che bruciava, per poi sciogliere la cera, fino a consumarla tutta e spegnersi, in un ultimo sbuffo di fumo.
La memoria è fatta di cose, di proiettili e persone, di grida e di dolore, di lacrime e sangue; ma è anche un frammento di storia che ascoltata trafigge il nostro cuore e ci porta lontano in un viaggio compiuto, una tragedia, una condizione umana che di umano non ha più niente. Questi frammenti uniti assieme devono formare lo specchio in cui tutte le generazioni dovranno osservare cosa è già successo, comprendere il perché e trovare il modo di allontanare sempre più i sentimenti che hanno generato questi uomini distruttivi.
Ci sono persone che rappresentano la memoria di queste tragedie, persone che fra poco non potremo più consultare, che diventeranno pagine di storia ingiallite in un libro, fino a perdere la forza della memoria. Dobbiamo fare la guerra contro la “perdita di memoria”, ricordare cosa ha dato origine a questa alienazione della coscienza umana, alla distruzione della vita, con la presunzione o la scusa della selezione della razza. Non dobbiamo più essere inermi ma soldati armati di frammenti taglienti, di parole, di ricordi; che scolpiscano nuove generazioni lontane dalla distruzione.
La libertà è fatta persona, non può esserci persona senza libertà.
Noi passeggiamo ospiti di questa astronave terrestre e possiamo fare di più, possiamo coltivare nuove menti che fioriscano con idee di futuro di pace, di libertà, di condivisione e rispetto per l’unica cosa che ci rende umani: la vita!
Ciao “Grigi” ovunque tu sia, è stato bello fare il giro intorno al sole passeggiando al tuo fianco, ascoltando il tuo racconto, rubando un po’ delle tue emozioni, per piangere lacrime amare, ma ricche, ricche di buoni propositi, che oggi sono lacrime di memoria che contaminano i miei figli, e spero anche chi legge i miei scritti. Umidi di coscienza, di passione, ma anche di particelle minuscole di storia.